BIOGRAFIA

Alberto Bardi nasce a Rignano sull’Arno (Firenze) l’8 ottobre del 1918. Poco dopo la famiglia si trasferisce nell’Appenino tosco-romagnolo e poi definitivamente a Mezzano, frazione di Ravenna, dove il padre, tecnico agrario, dirige una grande azienda agricola.  A Ravenna Bardi segue gli studi fino al conseguimento della maturità scientifica, ma già dalla adolescenza, assecondando le sue naturali aspirazioni, comincia a dipingere. Completate le scuole medie superiori, si trasferisce a Roma, dove frequenta il biennio presso la facoltà di Ingegneria. Nella Capitale, a contatto con un ambiente più vasto e stimolante, rafforza la sua inclinazione per la pittura ed affina i suoi mezzi tecnici.

Lo scoppio della 2a guerra mondiale lo costringe ad interrompere gli studi. Mobilitato è inviato, come sottotenente di artiglieria, sul fronte russo.

Ai primi di settembre del 1943 torna a Ravenna in licenza. L’8 settembre viene dichiarato l’armistizio: Bardi, come molti altri giovani, si unisce alle formazioni partigiane che operano sul Monte Falco e diviene comandante di formazione della 8a Brigata Garibaldi, col nome di battaglia di Falco.

Quando la lotta partigiana si sposta in pianura, Bardi vi partecipa in qualità di comandante della 28a brigata GAP "Mario Gordini, a fianco di Arrigo Boldrini (il comandante Bulow): è la formazione che il 4 dicembre del 1944 liberererà Ravenna, dopo un’aspra battaglia.

Sempre in questo periodo è esponente del Comitato di Liberazione Nazionale (di cui fa parte tra gli altri Zaccagnini) che si riunisce clandestinamente a casa Bardi e, in rappresentanza del CLN, cura i collegamenti con il comando Alleato.


Queste esperienze, pur interrompendo per qualche anno la sua attività artistica, consolidano in lui alcune caratteristiche della personalità, che si ritroveranno nel suo lavoro di operatore culturale allorché si trasferirà nella Capitale.
Nel primo dopoguerra riprende a dipingere. Frequenta lo studio del pittore Teodoro Orselli, allora direttore della Accademia di Belle Arti di Ravenna, dove Bardi stesso è uno degli insegnanti.

In quei primi tempi di pace, in un’Italia allo stremo e ancora sconvolta, non è facile tornare alla normalità e soprattutto orientarsi nel campo dell’arte, in un ambiente ristretto e privo di informazione. Bardi comunque si aggiorna culturalmente e qualche influenza cézanniana e cubista si ritrova nei suoi lavori di allora. Le istanze di una tematica sociale dell’arte, molto diffuse, in quegli anni, pur così lontane dalla sua concezione della pittura, lo condizionano per qualche tempo: in particolare una grande opera che tuttora si trova presso la sede delle Acli di Galeata e in numerosi quadri che rappresentano soprattutto fabbriche e paesaggi industriali. Bardi comunque affronta questa tematica (che peraltro abbandona rapidamente) con originalità e personalità. I suoi quadri sono fortemente strutturati; emergono gli elementi portanti, quelli dinamici, la linea e il gesto essenziali.

Lascia nuovamente Ravenna per riprendere gli studi universitari, questa volta presso la facoltà di Architettura, prima a Bologna e poi a Firenze. Ma ragioni di lavoro e di impegno politico lo costringono ad abbandonare di nuovo gli studi ed a spostarsi in diverse città: Roma, Ravenna, Terni, Faenza ed infine Venezia, dove resterà per sei anni. A Venezia conosce Pizzinato, Vedova, Santomaso, e frequenta l’ambiente artistico. Riprende a dipingere intensamente e a questo periodo (seconda metà degli anni ’50) risalgono numerose mostre, personali e collettive. Partecipa alle esposizioni della Fondazione Bevilacqua La Masa, al Premio Campigna, ecc.

A Venezia dipinge ritratti, nature morte e, soprattutto, paesaggi. Bardi lavora in studio ricostruendo e modificando l’immagine, secondo esigenze interne all’immagine stessa che non si propone come rappresentazione. Qualsiasi soggetto, qualsiasi forma sono assunti nel loro valore compositivo e nella loro struttura.

Nel 1961 Bardi si trasferisce a Roma. Dal ’64 inizia ad occuparsi della Casa della Cultura di cui diviene il responsabile dal ’67 fino alla morte, avvenuta nel luglio del 1984. La svolta nella sua opera di artista, iniziata nel 1964, coincide dunque, forse non a caso, con tale nuovo impegno assunto da Bardi, più congeniale alle sue inclinazioni. Nell’attività della Casa della Cultura Bardi esprime le sue migliori qualità e si giova delle molteplici esperienze che hanno contrassegnato la sua vita. Non è uomo di potere, non ama la retorica né gli schemi precostituiti, rifiuta ogni posizione angusta e preconcetta, sollecita e organizza il confronto tra tesi ed esperienze diverse, tra correnti di pensiero diverse, tra opinioni politiche diverse. Tanto è rigido verso sé stesso quanto è aperto verso gli altri.

Per anni la Casa della Cultura, del cui Direttivo fanno parte eminenti personalità, è luogo assai vivace di incontro dei più noti intellettuali e centro di importanti iniziative in ogni campo, compreso quello delle istituzioni culturali cittadine, a cominciare dalla Quadriennale.

Il suo trasferimento nella capitale lo mette in contatto con le varie tendenze dell’ambiente artistico romano: in particolare guarda con interesse al lavoro di Gastone Novelli, di Giulio Turcato, di Achille Perilli. Si occupa anche del Sindacato artisti e stringe amicizia con numerosi giovani, allora emergenti.

Nel 1961/62 chiude definitivamente le precedenti esperienze con una mostra alla Galleria Tornabuoni di Firenze. Dal 1964 alterna opere astratte ad altre ancora figurative. Questa alternanza si protrae fino al ’66 allorché, abbandonato l’olio per altre tecniche (tempere, acrilici, ecc.), espone nella sua prima mostra romana (febbraio 1967) la sua ultima serie di opere in cui la figura è ancora presente, se pure costruita e cancellata da gesti e da segni che poi si ritrovano nelle opere astratte successive. La mostra, presso la Galleria “Il Girasole”, è presentata da Cesare Vivaldi.

Il suo percorso di artista è ormai libero da schemi e condizionamenti esterni. Ciò gli consente di seguire i propri convincimenti senza legarsi a particolari scuole e modelli. Pur nella continuità delle idee che sono alla base del suo operare, rifiuta persino di essere il modello di sé stesso e, nel corso degli anni, ricerca nuove tecniche e nuovi mezzi che gli consentano di realizzare questa sua essenziale esigenza di rinnovamento continuo del proprio linguaggio, rinnovamento che ha inizio, come si è detto, nel 1964, e le cui tappe fondamentali possono individuarsi negli anni dal ’67 al ’73, dal ’74 al ’78, dal ’79 fino alla morte. Esse vengono evidenziate da importanti mostre, presentate nel 1969/70 da Giorgio Di Genova, nel 1974 da Nello Ponente, nel 1978 da Italo Mussa e nel 1983 da Claudia Terenzi e Achille Perilli.

Un contributo comunque non secondario alla piena esplicazione delle sue idee ed del suo lavoro di artista si deve al rapporto di stima e di amicizia con Nello Ponente ed Achille Perilli, ed al lungo sodalizio con quest'ultimo nell'attività del gruppo sperimentale “Altro/Lavoro intercodice” che ha operato a Roma negli anni ’70.


Una rivolta che continua sempre
da un'intervista ad Alberto Bardi su “Noi Donne”, 1967


"Ho fatto la Resistenza in montagna, sull’Appenino tosco-romagnolo dalla fine del ’43 alla primavera del ’44. In seguito, sono stato comandante del Gap in provincia di Ravenna. Avevo 25 anni.

Il mio nome di battaglia? Fa un po’ ridere ricordare oggi queste cose, ma allora avevano un senso. Comunque mi chiamavano Falco. Avevo già fatto la guerra, come sottotenente di artiglieria in Russia: l’8 settembre mi trovavo per caso in licenza. La rivolta fu dapprincipio del tutto individuale: contro l’ambiente provinciale chiuso, grigio, dominato dalla retorica fascista, contro una cultura piena di pregiudizi e di luoghi comuni. Contro una scuola senza problematica. Vivevamo noi ragazzi in un’atmosfera soffocante, tanto più oppressiva per chi aveva voglia di leggere, di pensare, di ragionare.

Solo il nostro ceto piccolo borghese però era una morta gora: fra i contadini e i braccianti romagnoli serpeggiava una rivolta molto più concreta e precisa. In molte famiglie gli uomini erano al confino e in esilio e la gente non li considerava degli opportunisti ma al contrario li ammirava. Fra noi studenti tirava aria di ribellione con dei sapori anarchici. Io pensavo: tutto va cancellato. Ricordo che non mi andava bene niente e che, anche se non avevo i capelli lunghi, ero abbastanza simile ai giovani d’oggi. Ero contro tutto ciò che aveva carattere di “normalità”: tutto mi sembrava da mutare: le idee sulla famiglia, sullo Stato, sulla società, anche se, a dire il vero, mi mancava la cultura sufficiente per dire “come” tutto andava cambiato.

Il primo grande choc fu la guerra. Ci andammo con residui storici ma contribuirono ad aprirci gli occhi i soldati, operai e contadini i quali dicevano con parole semplici e chiare, trovandosi in quell’infausta campagna di Russia: “Ma che ci siamo venuti a fare qui? Che fastidio ci dava mai questa gente?” Vedemmo da vicino, con i nostri occhi, tutto il marcio: che eravamo destinati ad essere sconfitti, che si combatteva per una causa ingiusta.

Al mio ritorno presi contatto con i comunisti e mi schierai con la Resistenza.

I giovani d’oggi ci rimproverano, accusandoci che, dopo, le cose non sono andate esattamente come era nei nostri desideri: che abbiamo sbagliato, che non ce l’abbiamo fatta a “rifare il mondo daccapo” e che siamo dei falliti. In parte dobbiamo riconoscere che non siamo stati in grado di travolgere in pieno il passato e che non abbiamo distrutto e sconfitto per sempre le vecchie tare della società italiana. Debbo dire che tutto ciò che noi facemmo corrispondeva alle nostre forze e che sarebbe disonesto affermare che qualcuno ci ha “traditi”. Probabilmente non disponevamo della cultura e della maturità ideale per un’opera tanto gigantesca. Avevamo idee non elaborate ed elementari. Questo è stato forse il limite della generazione cresciuta nel fascismo. Ci trovammo, giovani, ad affrontare compiti molto ardui, dinanzi ai quali l’impreparazione culturale ereditata dal fascismo ci fu di ostacolo.

Come si salda la generazione della Resistenza con quella di oggi? La rivolta delle nuove generazioni tende a coprire i vuoti che noi abbiamo lasciato in questi vent’anni. L’interesse nostro (dei quarantenni) è quello che non ci sia una rottura fra le due generazioni, perché si tratta di far leva insieme su ciò che la società sinora ha conquistato, per fare un altro sostanziale passo avanti.

La Resistenza ci ha fatto acquisire la coscienza, direi, di una rivolta che continua sempre. Ci ha impresso fino in fondo la volontà di superare sempre i limiti della società. Non ci si può ribellare solo a vent’anni: ciò non conta nulla, perché a vent’anni è naturale. Credo che lo spirito di rivolta un uomo se lo deve portare dietro tutta la vita".